08/07/2025

Plasticità tumorale: la strategia di sopravvivenza del cancro

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Uno degli aspetti del cancro dove è più evidente quella sorta di “intelligenza autoconservativa” che le sue cellule sembrano opporre alle cure è la metastasi, la capacità di diffondersi da una sede originaria in alti distretti dell’organismo.

Questo può avvenire, prima di tutto, perché tali cellule perdono la loro “identità istologica”: dimenticano, in altre parole, di essere appartenute a un certo tessuto. Dopo di che sono pronte a trasformarsi in altri tessuti, conservando, però, o addirittura aumentando, la loro capacità di proliferare a scapito delle cellule sane.

Le modifiche epigenetiche: oltre le mutazioni genetiche

A complicare ulteriormente il compito degli oncologi, si è scoperto che la cosiddetta plasticità, la capacità di cambiare fisionomia, delle cellule metastatiche non dipende da mutazioni del genoma, quelle che alterano chimicamente un tratto di cromosoma, ma ‘solo’ da modifiche, dette ‘epigenetiche’, dello stato del DNA e dell’ambiente circostante.

In altre parole, il gene nella sua sequenza rimane intatto: a cambiare è la sua espressione – il modo e la misura con cui si realizzano le sue istruzioni – che perciò può risultare diminuita, aumentata, o silenziata, cioè azzerata. Dire ‘solo’, però, fa un enorme torto, ovviamente dal punto di vista del tumore, all’efficacia di queste modifiche microambientali, che non sono meno stabili di quelle genetiche vere e proprie, tanto da poter essere ereditate.

La complessità molecolare dei meccanismi su cui la plasticità tumorale si regge è tale da costringere la ricerca a una rincorsa affannosa di nuove soluzioni per intervenire, ora in un punto, ora nell’altro di questi percorsi, e impedire al tumore di escogitare vie di fuga.

Approcci farmacologici: dall’intervento diretto a quello indiretto

Uno dei primi obiettivi è trovare il modo di riportare con dei farmaci la cellula alla sua identità di partenza. Farlo direttamente è molto difficile, perché le cellule neoplastiche si difendono elaborando rapidamente contromisure. Alcune ricerche, l’ultima appena pubblicata sulla rivista ‘Nature’ da un’equipe di studiosi britannici, suggeriscono che l’intervento indiretto, su determinati fattori e cofattori della plasticità, possa essere la strada giusta per ‘addomesticarla’.

Un analogo indirizzo viene sviluppato anche all’Istituto di Candiolo – IRCCS, sotto la guida dei professori Silvia Giordano, ordinario di oncologia e direttore del laboratorio di Biologia molecolare del cancro, e Livio Trusolino, direttore del laboratorio di oncologia traslazionale, da tempo impegnati su questo fronte così mobile e incerto della malattia, e così difficile per tanti pazienti.

Dottoressa Silvia Giordano: “La plasticità delle cellule tumorali è ben nota. E’ la prima causa della resistenza al trattamento farmacologico, ad esempio, nel tumore al polmone o alla prostata. Questo avviene perché, sotto l’azione dei farmaci, alcune cellule non muoiono. Si trasformano in qualcos’altro che non è più sensibile al farmaco usato.

Diventano le cosiddette cellule persistenti, che sono responsabili delle recidive. Se a un paziente con un adenocarcinoma polmonare diamo un farmaco contro una molecola che si chiama EGFR, dopo un po’ questo paziente può sviluppare un tumore diverso, a piccole cellule, detto microcitoma, assolutamente indifferente al fatto che lo EGFR venga inibito. Lo stesso vale anche per i tumori della prostata”.

Meccanismi epigenetici nella plasticità tumorale

Lo potremmo definire un fenomeno epigenetico?

“Sì, perché dipende da alterazioni di tipo epigenetico. Non coinvolgono direttamente la sequenza genomica, ma l’accessibilità dei geni, per cui alla fine può essere la stessa cosa che io perda un gene, oppure che lì intorno mi si leghino delle proteine che bloccano la possibilità di trascrizione: dal punto di vista sostanziale, non ho quella proteina. Alcune di queste trasformazioni che interessano la plasticità del tumore sono reversibili, altre no, ma non è detto. Come dimostra l’articolo di Nature, la ricerca sta cercando di trovare gli strumenti chimici, e i tempi e spiccate caratteristiche embrionali.

Uno dei tumori dove la ricerca si sta concentrando è quello al colon, perché, ci spiega il professor Livio Trusolino, il tessuto intestinale possiede di per sé un elevato tasso di ricambio, originando da cellule staminali particolarmente capaci di differenziarsi, quindi con spiccate caratteristiche di plasticità.

Fattori di trascrizione e terapie innovative

Professor Livio Trusolino: “Prendiamo ad esempio una cellula che prima è un enterocita, cioè assorbe i prodotti della digestione, e poi diventa mucipara, cioè secerne muco. Ebbene, è una cellula che ha spento i geni assorbenti ed ha acceso i geni della secrezione. Questo cambio funzionale, o plasticità, appunto, dipende dai cosiddetti fattori di trascrizione, proteine che stimolano l’espressione di alcuni geni e bloccano l’espressione di altri. Ora, noi sappiamo che i fattori trascrizionali non si possono trattare con i farmaci, cioè non esistono inibitori chimici capaci di bloccarli. Tuttavia, una soluzione farmacologica che sI sta provando, con successi alterni, è quella dei cosiddetti ‘degrader’.

Queste molecole inseriscono sulla proteina bersaglio trascrizionale piccole modifiche chimiche che possono indurla ad autodegradarsi. L’altro approccio è quello dei farmaci epigenetici. Si tratta di questo. I fattori trascrizionali, che sappiamo non trattabili con i farmaci, per funzionare, hanno bisogno di una nuvola di cofattori che ne potenziano l’attività. Ad esempio, alcuni cofattori decondensano la cromatina, il materiale che forma i cromosomi.

Alcuni di questi cofattori che modificano la cromatina sono enzimi e gli enzimi sono proteine trattabili con i farmaci. Quindi, se li inibisci, finisci per inibire anche i fattori di trascrizione. Il limite di questo approccio è il difetto di specificità: blocchi quel tumore, ma nel frattempo rischi anche di interferire con qualche altro processo fisiologico. Però è una strada che sembra promettente”.

Che cosa si fa in particolare qui a Candiolo in questo settore della ricerca?

“Con il 5 per mille messo a disposizione dalla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro abbiamo avviato “Caress“, un progetto ampio che studia il comportamento del tumore sotto la pressione del farmaco. Si parte dal fatto che prima di dare origine ad una resistenza irreversibile, quindi ad una ricaduta che non può più essere controllata, il tumore passa attraverso una fase reversibile e controllabile, detta di tolleranza farmacologica.

Questa fase si manifesta tipicamente nel momento di massima risposta ai farmaci, cioè quando il tumore è quasi completamente eradicato. Ed è anche quella in cui la plasticità più elevata corrisponde al picco di fenotipi cellulari, cioè di sottopopolazioni tumorali con aspetto e funzioni modificate, subito prima che si sviluppi la resistenza irreversibile.

Dal momento che, come detto, alcuni di questi fenotipi sono condizionati dall’attività di certi enzimi e gli enzimi sono sempre trattabili farmacologicamente, noi stiamo appunto cercando di identificare una serie di enzimi che favoriscono l’attività dei fattori trascrizionali per poi inibirli, e in questo modo bloccare il fenotipo farmacotollerante indotto dal fattore trascrizionale. Inoltre, per alcuni fattori trascrizionali puntiamo a intervenire con i degrader.

Risultati preclinici e prospettive future

A che punto siete?

“Lo studio è preclinico, lavoriamo con i campioni dei pazienti che diventano dei modelli sperimentali della Biobanca. E gli approcci farmacologici che stiamo provando dimostrano una buona efficacia”.

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