09/06/2025

Un sarcoma raro e l’impegno per la ricerca: la storia di Matilde

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Grazie. Buonasera a tutti e grazie di essere qui innanzitutto. Prima di iniziare vorrei ringraziare il Rotary Club Cuneo 1925 per aver organizzato questa serata appoggiandomi nel mio progetto, i miei oncologi, il dottor Grignani e la dottoressa Aliberti per essere qui oggi a trattare questo argomento che per me è così importante, la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro per la collaborazione nella raccolta fondi e tutti i miei medici operatori sanitari dell’Istituto di Candiolo – IRCCS che mi stanno aiutando in questi mesi.

Per chi non mi conosce sono Matilde Dalmasso, ho 19 anni e ho un sarcoma raro.

La mia vita è cambiata durante quella che doveva essere l’estate più bella della mia vita, quella dopo la maturità, precisamente l’8 agosto 2024, il giorno in cui pronta per partire per le vacanze, dopo aver fatto delle analisi del sangue per quelli che credevo essere mal di schiena e dei semplici linfonodi gonfi, sono stata chiamata con urgenza dall’ospedale.

Lì è dove è iniziato il mio primo ricovero, dove ho capito che le cose brutte non sono sempre lontane come sembrano, a volte ci raggiungono e questa volta avevano raggiunto me.

Rabdomiosarcoma alveolare, un sarcoma dei tessuti molli, pediatrico e raro. Faccio parte di quelle quattro persone su un milione che ne sono state colpite. Nel mio caso il tumore, che ho rinominato Bobbi, era già particolarmente diffuso, ecco.

Una massa di 16 centimetri nell’addome, si stava diffondendo agli arti causandomi una trombosi e avevo metastasi nel midollo osseo e anche qua e là, all’incirca.

Sono sincera con voi, questi ultimi dieci mesi sono stati tutt’altro che semplici e facili. E non penso che neanche i prossimi lo saranno.

Quello che sente il mio cuore

Ho visto e capito tanto e ad oggi ripenso spesso alle parole che in molti mi rivolgevano all’inizio, dicendomi che da questo periodo avrei imparato qualcosa. Mi viene da sorridere perché la mia risposta era sempre che avrei vissuto benissimo lo stesso, anche senza conoscere tutte le dinamiche legate alla malattia. Sinceramente lo penso tuttora.

Sicuramente la Matilde di prima era una persona diversa, non solo per i suoi lunghi capelli ricci, ma per la sua ingenuità.

Ho 19 anni, è vero, ma ho provato e compreso cose che molti dei miei coetanei non possono capire e credo neanche molti di voi. Ho capito cos’è la malattia, quella vera, quella per cui devi fare pace con il pensiero che puoi non farcela.

Ho toccato con mano il dolore, quello fisico, che non ti permette di fare niente, ma l’ho anche visto nel mio riflesso allo specchio, con i giorni che passavano, quando mi sentivo consumata non solo dal tumore ma anche dalle cure.

Il dolore riflesso negli occhi degli altri

L’ho visto negli occhi dei miei familiari ogni volta che mi guardavano, consapevoli di non poter cambiare la situazione, e in quelli dei miei amici il giorno in cui gli ho detto che ero malata.

Ho conosciuto il dolore nel reparto di Candiolo, osservando gli altri pazienti la cui vita era stata improvvisamente stravolta, esattamente come era successo a me. Ho visto la paura negli sguardi, la sofferenza nelle voci, la compassione nei gesti.

Non posso dire di aver imparato qualcosa, perché implicherebbe che in qualche modo mi è stata impartita una lezione, e non so voi, ma io sinceramente non ritengo un tumore come una lezione educativa. Posso dire però di aver compreso l’importanza di tante cose.

A Candiolo ho incontrato una realtà di cui ignoravo l’esistenza, totalmente, e mi continua a sorprendere di quanta gente ci sia ogni giorno in quell’Istituto.

E mi stupisce ancora di più il fatto che tra tutti i volti di quei malati non ne riconosco quasi nessuno. Questa cosa mi spaventa, mi spaventa tantissimo, perché sinceramente quella gente sta vivendo la stessa cosa che sto vivendo io e non la augurerei mai a nessuno. Tuttavia sono quelle stesse persone, quelle da cui ho imparato cos’è importante davvero.

La vita. Non smetterò mai di ripetere che la voglia di vivere che ho trovato nei malati oncologici non la vedrò mai più in nessun altro.

Perché è commovente pensare che proprio coloro che avrebbero tutte le ragioni per piangersi addosso sono gli stessi seduti tra le sedie del Day Hospital con un sorriso sul volto, nonostante stiano aspettando un medico che gli dica quanto sono messi male.

Detto proprio terra, terra. Sinceramente io nei loro volti vedo tanta speranza. Tanta speranza e li stimo molto perché hanno la forza di andare avanti con un fardello sulle spalle, perché alla fine si tratta di questo.

Ho perso il conto sinceramente di quante volte ho ripetuto la frase: “qualsiasi cosa basta che mi faccia stare meglio”. La ripetevo a tutti, alle infermiere quando venivano a somministrarmi la chemioterapia oppure a quelle che mi davano le medicine per sopportare il dolore.

E di quante volte l’ho sentita anche da quei pazienti. Quei pazienti che si stavano ancorando alla vita con le unghie con i denti, come veramente non ho mai visto nessuno fare.

Perché noi malati oncologici abbiamo una cosa in comune, la fiducia nella medicina. La verità è che finché una realtà non ci tocca da vicino non ci possiamo rendere conto di quanto sia davvero importante. Io me ne sono resa conto il giorno in cui i medici mi hanno detto che sì, le cure per il mio sarcoma esistevano, assolutamente, ma i fondi per migliorarle mancavano, perché i casi sono molto pochi.

Mi ricordo di aver pensato che non era giusto, ma non per me, la ragazzina che sinceramente non sapeva neanche cosa fosse un sarcoma. Ma perché a tutti deve essere concessa la possibilità di curarsi in modo efficace e il più rapido possibile.

Perché anche se i casi sono pochi, non vuol dire che non ci siano, e io direi che ne sono la prova vivente. E non vuol dire che abbiano meno importanza.

È per questo che la ricerca va mandata avanti, perché tutti devono poter avere:

un piano A, un piano B, ma anche tutti i piani di riserva.

Perché sì, senza la mia forza non sarei qui, senza la vicinanza dei miei familiari e dei miei amici non sarei qui, senza quelle 23 trasfusioni di sangue non sarei qui. Ma soprattutto la verità è che se non esistessero delle terapie, io non starei migliorando.

Ed è per questo che oggi io vi faccio questo appello. Donate, investite nella ricerca.