25/06/2025
Per curarci in futuro, la medicina impara a scrutare il passato attraverso il presente del nostro DNA, che grazie a tecniche sempre più sofisticate di lettura delle istruzioni contenute nel codice genetico, sta rivelando decine di milioni di varianti, per lo più sconosciute, e molto spesso legate alla comparsa di tratti cognitivi e di malattie.
Il progetto pilota, una vasta collaborazione internazionale era partito una ventina di anni fa per sequenziare e leggere da cima a fondo “1000 genomi viventi” – in realtà 2500 – ben distribuiti tra tutti i continenti. L’obiettivo finale era creare una mappa aggiornata dei geni umani codificanti e osservare come le loro mutazioni compaiono da una generazione all’altra.
I dati raccolti da questo e da altri campionamenti analoghi, come lo “Human Genome Diversity Project“, rappresentano un enorme passo in avanti per comprendere i meccanismi che hanno fatto di noi non solo quel che siamo, come specie e individui, ma anche quel che eravamo in tempi lontani. Come ci siamo divisi in popolazioni sempre più differenti e tali da giustificare la classificazione, spesso un po’ gratuita, in specie diverse.
E come, invece – ultima e recentissima scoperta dei genetisti – ci siamo ritrovati e rimescolati, perfino dopo un milione di anni e mezzo di anni; con risultati che adesso ci sorprendono e forse anche allora avranno destato scalpore nelle famiglie, costrette a palleggiarsi un pupo chiedendosi se ‘aveva preso’ più dalla mamma neanderthal, europea doc, o dal babbo sapiens, immigrato dell’est, o dalla nonna denisova, residente tra la Siberia e la costa cinese.
Per inciso: finora si pensava che questo terzo tipo umano, ‘diversamente affine’ a noi, fosse diffuso nel solo nordest asiatico. Invece la sua presenza anche a sud è appena stata confermata dal Max Planck Institute di Lipsia, rianalizzando con tecniche più precise il DNA estratto da una mandibola ripescata lungo la costa di Taiwan vent’anni fa.
Tra le conseguenze di questi ‘melting pot pleistocenici’ che ad esempio ci hanno trasmesso (a accezione degli africani subsahariani) dall’1 al 3 per cento di geni neanderthal e agli asiatici il 3-4 per cento di geni denisova, ci sono anche le ragioni per le quali siamo più resistenti a certe malattie, o a climi estremi.
Perché è vero, come spiega il torinese Francesco D’Errico, docente di paleoantropologia alle Università di Bordeaux e di Bergen, che dopo aver perso il pelo già nelle savane africane, abbiamo imparato molto presto, forse già a partire dai 300 mila anni fa, a mimetizzarci e a proteggerci dalla temperie: l’abbiamo fatto prima col fango, poi con le pellicce altrui, e infine, grazie all’ago e al filo, con i tessuti.
Ma se gli attuali abitanti del Tibet possono affaticarsi senza problemi a quota seimila, pare lo debbano non solo alla tecnologia, ma anche a una mutazione che studiosi di Berkeley e di Shenzen, una decina di anni fa, avevano localizzato sul gene EPAS1.
Ereditata dai denisova, questo ‘difetto’ consente al loro metabolismo di aver meno bisogno di ossigeno senza aumentare i globuli rossi, come accade a noi abitanti delle pianure che dobbiamo ambientarci di volta in volta alle alte quote, esponendoci a problemi cardiocircolatori.
Troppo semplice? Infatti. Il caso e la necessità, che ci permettono di inseguire l’ambiente, suonano spartiti molto più complessi. Pochi mesi fa, un altro studio internazionale sugli himalayani, coordinato dall’ateneo di Bologna, ha chiarito che il loro adattamento all’ipossia non poggia solo su quel solo gene, ma su numerose varianti, tutte denisova, capaci anche di accrescere l’angiogenesi, cioè di formare nuovi vasi per portare più sangue ai tessuti.
Non sono semplici curiosità, ma conoscenze strategiche, ad esempio, per prevedere e limitare i danni di future pandemie. Oggi sappiamo che alcuni tratti ereditati dal neanderthal ci rendono più vulnerabili ai coronavirus. Quindi possiamo individuare meglio, soprattutto a livello di popolazioni, chi proteggere dal contagio.
Il progetto ‘1000 genomi’ ha chiarito che la maggior parte delle persone possiede fino a 100 variazioni genetiche associate a malattie ereditarie, 60 delle quali non presenti nei genitori. Per fortuna, e contrappeso, di ogni gene possediamo due copie, se non tre (trisomia), come si osserva nella mucosa gastrica di alcuni ultrasessantenni. Dove, racconta Nature, un team di ricerca tra Mit, Wellcome Sanger Institute, Harvard e Hong Kong ha scoperto che la percentuale di cellule mutate, su geni collegati ai tumori, sale al 10 per cento.
In ogni caso, la genetica non è un destino, ma una semplice tendenza. Perciò, collegare, come tanti hanno sostenuto, la mortalità da Covid nelle valli bergamasche a una concentrazione particolarmente alta di quelle stesse varianti neanderthal, è una deduzione che non convince: implica che la popolazione locale sia rimasta piuttosto isolata per almeno 40 mila anni, come nemmeno il più radicale degli autonomisti oserebbe affermare.
In conclusione, anche se potrà sembrare banale, è meglio sapere a che cosa siamo più sensibili per nascita che non saperlo, perché solo così possiamo orientarci verso quei comportamenti che, nella stragrande maggioranza dei casi, possono evitarci di trasformare una debolezza, o una particolare sensibilità, in una vera e propria patologia. Siamo sempre lì: prevenire è il modo migliore per curare. O meglio, per non curare.
In Italia, l’Istituto di Candiolo – IRCCS rappresenta un’eccellenza nella ricerca genetica applicata all’oncologia.
Grazie al sostegno della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, è in fase di realizzazione una nuova Biobanca all’avanguardia, destinata a raccogliere e conservare campioni biologici umani per studi avanzati sulla genetica, proteomica e metabolomica dei tumori.
Tra le risorse già operative, spicca Xenturion, la più grande Biobanca al mondo di tumori del colon-retto, che offre alla comunità scientifica modelli tridimensionali fedeli ai tumori originali dei pazienti.
Questo progetto permetterà di approfondire la comprensione delle variazioni genetiche e di sviluppare terapie personalizzate, contribuendo significativamente al progresso della medicina di precisione.
Maurizio Menicucci – Giornalista scientifico