17/02/2025

La Neoangiogenesi tumorale: nuove strategie terapeutiche nella ricerca oncologica

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Una strana reazione psicologica, che vorrebbe cancellare i conflitti metaforici nel momento in cui non possiamo evitare quelli reali, ci spinge a dubitare dell’utilità di espressioni come ‘guerra, o vittoria, o sconfitta’, quando parliamo del cancro.

Eppure, a suggerire che la similitudine marziale è inevitabile, non ci sono soltanto l’esercito dei pazienti, dei familiari e degli esperti schierati sul fronte della malattia, o i mezzi, le strategie, e le ‘logiche d’intelligence’ che la Scienza usa contro il ‘male del secolo’. Le stesse alterne sorti nella ricerca di una terapia risolutiva, non possono trovare definizione più propria di una ‘guerra senza quartiere’.

La prova, una volta di più, il lungo impegno della ricerca, che vede in prima fila l’Istituto Candiolo – IRCCS, per controllare e sfruttare in ogni modo e oggi, finalmente, con buoni risultati, un processo fondamentale per l’evoluzione dei tumori solidi. È la ‘neoangiogenesi’la capacità del cancro di indurre nel sistema vascolare circostante la proliferazione di una rete di vasi sanguigni strettamente funzionali alle proprie esigenze di crescita e di autodifesa.

In sintesi, si tratta di questo. Quando il tumore esce dalla fase di quiescenza e comincia a svilupparsi, lo fa attraverso un meccanismo a feedback, autoindotto, producendo una particolare proteina, – il Vegf, o fattore di crescita dell’endotelio vascolare – capace di indurre la formazione di una rete di capillari, a partire da quelli esistenti, che serve ad alimentare il tumore stesso nella sua crescita.

La sintesi del Vegf è innescata dalla carenza di ossigeno, che è caratteristica del micro ambiente tumorale ed è dovuta alle aumentate necessità metaboliche del tumore in progressione. Quindi, l’ipossia funge da segnale che stimola le cellule neoplastiche a produrre Vegf, per ampliare la vascolarizzazione locale.

Tale reticolo capillare, però, rispetto a quello fisiologico, è caotico e immaturo, per l’appunto embrionale, infatti nell’adulto entra in gioco solo nel processo di riparazione delle ferite e nel ciclo riproduttivo femminile. Tra i suoi difetti, c’è un’alterata permeabilità delle pareti dei vasi, per cui la pressione verso l’esterno supera quella in senso contrario.

Questo squilibrio ostacola l’ingresso dei chemioterapici, i componenti fondamentali del ‘magic bullet’ che dovrebbero entrare nelle cellule del tumore, e favorisce l’esportazione delle metastasi. In ogni caso, dalla ‘neorete’ vascolare, per quanto caotica rispetto a quella originaria, il tumore risulta dipendere in tale misura, che la densità di microvasi al suo interno è ritenuta un buon indice predittivo di recidiva e di mortalità, a prescindere da altri fattori prognostici.

Per questo stesso motivo, la ricerca aveva da tempo intuito che potesse non di meno rappresentare il suo Tallone d’Achille, anche se ci sono voluti anni di tentativi e insuccessi per provarlo.

Dopo aver scoperto, un quarto di secolo fa, che la angiogenesi tumorale è innescata dal Vegf, l’oncologia ha puntato subito a inibirlo, per bloccare ‘a  monte’ le possibilità del cancro di progredire. “I risultati, però, non sono stati positivi come si sperava”, ci spiega il professor Bussolino, coordinatore del gruppo dell’Istituto di Candiolo – IRCCS che studia il ruolo del microambiente tumorale e dell’angiogenesi nella progressione neoplastica.  

“Alcuni tumori, come colon-retto, polmone, rene, glioblastoma, mieloma, stomaco, rispondono bene, mentre altri, come prostata, mammella e pancreas, sono più refrattari, perché la minor ossigenazione causata dalle terapie anti-Vegf è un’arma a doppio taglio: finisce, dopo un po’, per stimolare la selezione di cellule resistenti, dotate di mutazioni che le rendono di nuovo aggressive. 

Inoltre, gli anti-angiogenetici risultano poco specifici, quindi piuttosto tossici anche per le cellule sane”. Invece di arrendersi, i ricercatori hanno insistito, provando a modulare l’angiosoppressione in base allo stadio della neoplasia. “Anche in questo caso – precisa Bussolino – gli esiti sono stati inferiori alle attese, perché non è semplice calibrare i dosaggi in base alle caratteristiche dei pazienti e del tumore”. L’equipe torinese, tuttavia, sta sperimentando altre strade, capaci di erodere sempre di più le percentuali di ricaduta e di prognosi infausta del melanoma. Una di queste trova conferma in uno studio condotto a livello preclinico dalla dottoressa Valentina Comunanza.

I melanomi cutanei – riprende Bussolino – sono curabili dalla chirurgia se diagnosticati per tempo. In più del 50% dei casi, dipendono da una mutazione dell’oncogene Braf, che controlla la proliferazione cellulare. Negli ultimi quindici anni, la ricerca ha messo a punto inibitori specifici di questo enzima-oncogene, che hanno aumentato sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti, anche se nemmeno questi riescono a evitare la comparsa di fenomeni di resistenza“.

Messe comunque all’attivo queste piccole conquiste territoriali, altre percentuali di progresso si devono all’immunoterapia, grazie ad anticorpi monoclonali che stimolano nei modi più vari il sistema immunitario contro il tumore. Anche così, l’effetto è parziale, perché non si riesce a indurre risposte prolungate in tutti i melanomi. Adesso, però, c’è una novità di notevole interesse clinico, ci spiega il professor Bussolino.

Il lavoro di Valentina Comunanza ha portato ad alcune osservazioni, che consigliano di riprendere in considerazione gli anti-angiogenetici”. In sostanza, l’attenzione è ritornata sull’anticorpo monoclonale bevacizumab, proprio quello, cioè, che 25 anni fa aveva aiutato a mettere in luce il ruolo del Vegf e dell’angiogenesi nell’evoluzione dei tumori solidi. 

“La prima osservazione riguarda l’effetto sinergico ad ampio raggio dell’associazione tra il bevacizumab e gli inibitori dell’oncogene Braf. Sapevamo che questi ultimi controllano la proliferazione neoplastica, mentre l’anticorpo monoclonale ‘normalizza’ i vasi del tumore, riossigenandolo ed evitando la selezione di cloni tumorali più aggressivi.

La novità consiste in un altro effetto, già supposto e ora verificato, del Vegf: non è solo un potente modulatore dell’angiogenesi, ha anche attività immuno-soppressiva. Quindi, il bevacizumab contribuisce anche a ‘difendere le difese immunitarie’ dall’azione del Vgef, stimolando la comparsa di macrofagi antitumorali. Nello stesso tempo, in associazione con l’anti-Braf, attiva l’immunità innata e adattiva e ‘prepara’ il tumore a ricevere l’immunoterapia.

A suggerire di rendere più letale la famosa pallottola con l’aggiunta di un terzo ingrediente alla coppia ‘antiBraf + bevacizumab’è stata una nuova evidenza, che tra l’altro permette di sfruttare i precedenti studi sulla possibilità di regolare il trattamento sullo stadio del tumore.

La dottoressa Comunanza ha individuato, infatti, una finestra temporale in cui l’associazione ‘antiBraf + bevacizumab’ migliora le prestazioni diun’ulteriore classe di farmaci: gli anticorpi monoclonali antiPd1, capaci di moderare l’attività dei cosiddetti ‘checkpoint’, le proteine che frenano la risposta immunitaria alle cellule tumorali.

Bussolino riassume così l’attivitaà del suo gruppo negli ultimi mesi: “Il potenziamento reciproco dei tre farmaci è confermato dalle tecniche di analisi cellulare a singola cellula: l’associazione tra il Braf-inibitore, il bevacizumab e l’anticorpo anticheck point esplica un effetto anti-tumorale potenziato e prolungato, induce la completa eradicazione nel 50% dei casi, e stabilisce una memoria immunologica utile a prevenire il formarsi di un nuovo tumore. E’ possibile, inoltre, che la normalizzazione vascolare, ottenuta dall’inibitore di Braf con il bevacizumab, ristabilisca il corretto flusso ematico verso l’interno del tumore, favorendo il reclutamento di linfociti capaci di ucciderlo”. 

Il lavoro dei ricercatori di Candiolo ha contribuito ad approfondire la conoscenza della biologia tumorale dei melanomi caratterizzati dalla mutazione di Braf, suggerendo la possibilità di usare in modo nuovo il bevacizumab e probabilmente altri farmaci che fino ad ora servivano più che altro a ostacolare l’angiogenesi tumorale.

Tale approccio terapeutico potrebbe essere utile per melanomi caratterizzati da un’alta produzione di Vegf, che rappresentano circa l’8% di questi tipo di tumori. Il che, a proposito di metafore purtroppo inevitabili, non sarà la vittoria finale, ma le guerre si vincono anche così, battaglia dopo battaglia.

Foto del giornalista scientifico Maurizio Menicucci