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24/09/2024

Il ruolo chiave del Laboratorio di Anatomia Patologica

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Professoressa Caterina Marchiò Responsabile della Diagnostica Molecolare del Laboratorio di Anatomia Patologica dell’Istituto di Candiolo – IRCCS

Professoressa Caterina Marchiò Responsabile della Diagnostica Molecolare del Laboratorio di Anatomia Patologica dell’Istituto di Candiolo – IRCCS

Parafrasando la scrittrice londinese Virginia Wolf, dietro ogni grande oncologia c’è sempre una grande laboratorio di anatomopatologia. E se il personale che vi opera è formato in gran parte femminile, come accade ormai dovunque nel campo della ricerca, tanto meglio anche per la verità dell’aforisma originale, che parlava, appunto, di grandi donne.

Perché il lavoro degli specialisti che curano il tumore sarebbe letteralmente impossibile senza quello, dietro le quinte, degli esperti di diagnostica molecolare, che hanno il difficile compito di identificare il tipo di neoplasia tra le centinaia oggi note alla medicina, oltretutto con le loro varianti spesso individuali, e orientare, così, i successivi trattamenti.

Il laboratorio di Anatomia Patologica dell’Istituto di Candiolo – IRCSS è guidato da Caterina Marchiò. E alla sua porta, peraltro sempre aperta per il via vai di campioni da scrutare, mi affaccio, oggi, con tutta la cautela di chi ha il compito, imbarazzante, di importunare la ricerca scientifica, per poterla spiegare.

Però la Professoressa se l’aspettava, oppure ha una notevole prontezza di riflessi, perché con gli occhi ancora fissi nel suo microscopio, anticipa la mia prima domanda: “Siamo un team multidisciplinare e ci concentriamo su diverse patologie, adattando le terapie alle necessità specifiche di ogni paziente oncologico. Direi, in sintesi, che siamo un elemento cruciale dell’Istituto, poiché interagiamo con tutti gli altri”. Visto che il principale strumento di lavoro è tra le sue mani, la seconda domanda è quasi obbligata.

C’è una parte strumentale il cui ruolo, tra l’altro, è destinato in tempi brevi a pesare sempre di più, ma il fattore umano resta fondamentale. Questo, perché i risultati non vengono prodotti da un sistema automatizzato, ma dalla capacità dello specialista di interpretare le immagini.

Noi prendiamo i campioni di tessuto che il radiologo, il chirurgo o l’endoscopista hanno ricavato dalle piccole biopsie o dagli organi del paziente, li osserviamo sul vetrino, li riferiamo alle caratteristiche del paziente oncologico, che sono tante, e alla fine cerchiamo di dare un’identità al tumore. In medicina, non esistono il bianco e il nero, è un percorso molto complesso, di rifiniture successive, per arrivare a una conclusione ragionevole. 

Sì. Dalle cellule malate si ricavano moltissime informazioni molecolari, che dobbiamo saper tradurre ai clinici in termini di prognosi e di risposta ai trattamenti. Inoltre, partendo da un tessuto alterato, portiamo avanti importanti progetti di ricerca, che ci consentono di studiare anche l’evoluzione di una patologia e di mettere a punto nuovi trattamenti terapeutici capaci di anticiparla, o di bloccarla in una fase precoce.

Grazie ai fondi che i nostri sostenitori donano alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, disponiamo di macchinari innovativi, che ci mettono in condizione di operare su un ventaglio molto ampio di analisi molecolari. 

In media, gli altri istituti oncologici si concentrano su una cinquantina geni. La nostra esperienza e le attrezzature di cui è dotato il nostro laboratorio ci hanno permesso di compiere un importante salto di qualità: possiamo analizzare fino a 517 geni. Questo si traduce in una profilazione molecolare molto più estesa e apre maggiori possibilità di cura proprio a quei pazienti che hanno meno chance terapeutiche.

Ora, sempre grazie alla generosità delle donazioni che la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro ci mette a disposizione, potenzieremo ancora la nostra dotazione strumentale, che già è all’avanguardia, acquisendo uno scanner di tessuti di ultima generazione.

Potremo, così, lavorare in sinergia con la sala operatoria. Il chirurgo avrà la possibilità di generare, direttamente dal tessuto fresco, immagini virtuali, sulle quali noi condurremo ricerche più precise e più efficienti. 

In realtà, non lo sappiamo. È una fase sperimentale. Per ora continueremo a lavorare anche col microscopio, ma in seguito lo scanner potrebbe, in effetti, soppiantarlo, anche perché intorno ha tutto un sistema di workstation che ne dilata le capacità. In ogni caso, lo scanner ci dà la possibilità di digitalizzare e mantenere intatta nel tempo la qualità delle immagini.

Dal momento che l’archivio-immagini dei tessuti è il terreno di confronto, quello su cui possiamo arrivare a classificare il tumore, è evidente che il contributo dello scanner sarà fondamentale. Personalmente, tuttavia, ritengo che ci sarà sempre bisogno del microscopio e dell’occhio umano che ci guarda dentro.

Innanzitutto, stabiliamo se si tratta di una metastasi o un tumore primitivo. Poi, partiamo dall’organo in cui sorge il tumore, perché ogni organo ha tantissimi istotipi, come si chiamano i vari tipi di tessuto tumorale.

Ad esempio, quello mammario ne ha un trentina, senza considerare che esistono istotipi non specifici per un solo organo, che però presentano anche loro un ventaglio molto ampio di forme, da caratterizzare attraverso ulteriori parametri sia morfologici sia molecolari.

Questo significa che all’interno della stessa casella, cioè di un dato tumore, ci sono infinite combinazioni delle sue caratteristiche che lo rendono unico, come del resto è lo stesso paziente.

Potrebbe, sì, ma solo se è in grado di fare il nostro lavoro meglio di noi. Per poter funzionare, l’AI ha bisogno di molti dati, ma tanti di questi tumori sono rari, quindi abbiamo pochi casi per ciascuna casella. In queste situazioni, l’AI potrebbe fallire il riconoscimento, proprio perché ha avuto pochi dati a disposizione, per imparare a farlo.

È chiaro che dovremo usare l’intelligenza sintetica quando sappiamo che il suo contributo può essere davvero utile: in altre parole, dovremo farlo con intelligenza naturale.

Grazie al nostro approccio analitico, siamo riusciti a identificare alterazioni geniche molto rare. Questo ci ha portato, ad esempio, a comprendere meglio il quadro genetico di alcuni giovani pazienti oncologici, rilevando alterazioni che interessano anche le loro famiglie.

Alcuni pazienti si rivolgono al Laboratorio di Anatomia Patologica per ottenere spiegazioni più dettagliate dei referti, spesso complessi, o per cercare chiarimenti, che possano rassicurarli rispetto alla diagnosi che hanno ricevuto.

Alla fine del mio percorso di studi in medicina, pensavo che avrei intrapreso la carriera di cardiologa. In seguito, frequentando il corso di Anatomia Patologica, ho scoperto che questa disciplina offre una visione d’insieme su ciò che può accadere a un paziente.

Studiando i tessuti, ho iniziato a comprendere le cause delle malattie, e questo aspetto legato alla conoscenza mi ha affascinato profondamente perché unisce cura e ricerca. Qui, orientando il lavoro dei clinici, sono convinta di riuscire nel modo più efficace a realizzare il mio personale obiettivo di medico: aiutare ogni singolo paziente, personalizzando il suo percorso diagnostico e terapeutico.