12/12/2025

Cellule persistenti nei tumori: cosa sono e perché sono così insidiose

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Ancor più che in altri campi della medicina, in oncologia la speranza è di arrivare a pochi rimedi per poter correggere, o addirittura prevenire le mutazioni, cioè le alterazioni genetiche – o epigenetiche – capaci di deviare alcune cellule dal patto biologico con le altre cellule dell’organismo e sviluppare i diversi tumori.

Ed è curioso osservare, invece, che in oncologia, ancor più che in altri campi della medicina, la ricerca procede esattamente in senso contrario. Moltiplica, fino a personalizzarle, le terapie, per inseguire i vari tipi di tumore a mano a mano che fa luce sulla complessità dei meccanismi del cancro e sulla possibilità di trattarlo meglio in certe fasi del suo sviluppo, spesso rivolgendogli contro le sue stesse strategie di difesa.

Tra le sempre più numerose categorie di cellule neoplastiche che attirano l’attenzione dei ricercatori, spiccano le cosiddette ‘persistenti’, una ‘sottopopolazione’ cellulare che riesce a sopravvivere ai trattamenti farmacologici senza aver subito specifiche mutazioni genetiche.

La differenza tra cellule persistenti e cellule resistenti

Le persister divengono, infatti, refrattarie, o tolleranti, alla terapia solo attraverso meccanismi che silenziano, o attivano alcuni loro geni. Perciò, non sono refrattarie alle cure in modo stabile, come accade alle cellule mutate nel DNA: si limitano a entrare in uno stato di “sonnolenza”, durante il quale non proliferano, riducendo l’attività metabolica; e quando la terapia viene sospesa, escono dal letargo e riprendono a moltiplicarsi, favorendo il ritorno del tumore.

La differenza tra resistenti e persistenti non è da poco, almeno per l’oncologo: mentre le prime non rispondono più allo stesso farmaco, le persistenti quando ‘si svegliano’, restano sensibili a quel farmaco, che le può nuovamente fermare. Il problema è che a un certo punto, anche le persistenti possono evolvere, mutare geneticamente e originare popolazioni di vere cellule resistenti alle terapie standard.

Il comportamento delle persister cells

A questo si aggiunge il fatto che il loro comportamento, e le sue cause, non sono ancora così chiari, come ci spiega Silvia Giordano, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare dell’Istituto di Candiolo – IRCCS, dove alcuni team sono impegnati a caratterizzarle per trovare il modo di colpirle sfruttando i loro stessi punti di forza.

Quante cellule persistenti possono essere presenti in un tumore?

Professoressa Giordano, quante persister cells possono esserci, in media, sulla massa delle cellule tumorali?

Non si può prevedere. Sono un frutto del caso e comunque piuttosto rare. Possiamo dire che ogni cellula, durante la sua vita, passa per diversi stati. Se si trova in una certa condizione quando viene colpita da un dato farmaco, può reagire allo stress entrando in quiescenza, cioè diventando persister.

Non si tratta di una definizione genetica, ma di un effetto trascrizionale, che dipende dalla possibilità di ogni singolo gene di esprimersi, o no. Ma noi non possiamo sapere quante cellule hanno questa reazione ogni volta, perché i nostri studi sono abbastanza recenti.

Inoltre, al momento, la maggior parte degli studi sono stati condotti su cellule in vitro, dove non è detto che la percentuale di persisters sia la stessa che si genera in vivo. Però, le sappiamo riconoscere con notevole sicurezza.

Perché le cellule persistenti sono così importanti?

Se sono rare, come mai le considerate tanto importanti?

Sono uno dei primi fattori di progressione della malattia. Sopravvivono ‘in sonno’ anche se la terapia risulta efficace e il tumore regredisce, ma quando si risvegliano, la loro capacità di rigenerarlo è molto alta. Ad esempio, possono produrre molecole che cambiano il microambiente in cui sono immerse, creando uno scudo che le difende dal sistema immunitario. Oppure, cambiano il loro metabolismo e quindi la capacità di reagire allo stress indotto dal farmaco.

Questa flessibilità adattiva – l’adattarsi rapidamente alle condizioni esterne – le rende particolarmente insidiose, perché può favorire l’insorgenza di vere e proprie mutazioni genetiche, che trasformano la cellula persister in una resister, capace, quindi, di causare tumori sensibili solo a nuove terapie.

Prevenire il risveglio delle persister cells

Si cerca di aggredire le persister solo quando non sono più quiescenti, o se ne può anche ostacolare il risveglio?

Di recente sono state identificate una serie di molecole da affiancare al trattamento (chemioterapia o terapia molecolare) per impedire la generazione delle persisters. Un altro indirizzo indaga la possibilità di stabilire un equilibrio tra il dosaggio massimo efficace e il minimo rischio di indurre persistenza.

Fino a poco tempo fa la maggior parte delle cure mirava, invece, a colpire le cellule persister nel momento in cui, rimuovendo il farmaco, potevano ricominciare a crescere.

Colpire le cellule in fase di proliferazione

Perché?

Perché è molto più facile uccidere una cellula che prolifera che una cellula quiescente. Il lato negativo di questo approccio è che, come dicevamo, ogni volta che una persister si replica, può andare incontro a vere mutazioni, quindi ad alterazioni genetiche che la rendono resister.

Recidive e tumori resistenti

Riassumendo, che tipo di tumori possono dare le persister cells?

Se conservano le loro caratteristiche, generano in prima battuta una massa locale che è una recidiva del tumore precedente. In un secondo tempo, possono evolvere in cellule resistenti, con tutti i problemi derivati dall’aumento aggressività e refrattarietà ai vecchi farmaci del nuovo tumore.

Il caso del cancro al polmone e alla prostata

Ci sono, però, parziali eccezioni a questo schema. Ad esempio, nel cancro al polmone, c’è subito un 15-20 per cento dei casi, che, al primo trattamento con terapie molecolari, cambia dal tipo più comune, detto ‘non a piccole cellule’, a quello ‘a piccole cellule’.

Sono tumori che già in questa fase richiedono approcci terapeutici differenti. Qualcuno ipotizza che questo passaggio da un tipo all’altro dipenda dal fatto che alcune cellule persister riacquisiscono la capacità di differenziarsi tipica della cellula progenitrice.

Lo stesso fenomeno è stato descritto anche per il tumore della prostata. In ogni caso, è un cambiamento che ha sempre un’origine trascrizionale, non genetica, simile per certi versi alla plasticità delle cellule staminali.

Utilizzare le strategie di difesa del tumore

L’oncologia tende sempre di più a trovare il modo per ingannare il tumore utilizzando come cavalli di Troia le sue strategia di difesa. Nel caso delle persister cells?

Progettiamo di identificarle con marcatori specifici, ma è un campo ancora molto aperto, o, come detto, di colpirle mentre sono dormienti, o impedirne la riattivazione, o, ancora, di indurre la loro morte sfruttando il metabolismo alterato, la vulnerabilità allo stress ossidativo e le differenze epigenetiche.

La Ricerca dell’Istituto di Candiolo – IRCCS

Non è facile orientarsi, tra tutte queste ipotesi. Dove puntano, in concreto, le vostre ricerche?

Banalmente a saperne di più, come accade ogni volta che si comincia a navigare un nuovo mare. Ora, dallo studio sulle linee cellulari in vitro, stiamo passando ai tessuti donati dai pazienti, grazie alla Biobanca di Candiolo, che con l’ampliamento in atto diventerà un riferimento per questi studi. Questo ci porterà sicuramente a notevoli progressi nella conoscenza delle persister cells.

Foto del giornalista scientifico Maurizio Menicucci